di marco
Un classico alternativo per queste feste. In streaming su Mubi
Tra i tanti dibattiti che alimentano l’opinione pubblica ogni anno sotto le feste, ce n’è uno che mi ha sempre affascinato ed incuriosito più degli altri. Non si tratta dell’eterna sfida tra panettone e pandoro (alla quale partecipo sempre meno volentieri, apprezzando dolci più nobili come panforte e marron glacé), della scelta di aprire i regali il 24 sera a mezzanotte o il 25 mattina né, tantomeno, se importa più il cenone della Vigilia o il pranzo del giorno. Piuttosto, fin da bambino mi sono sempre chiesto quale sia il non plus ultra dei film solitamente trasmessi durante le feste. Innanzitutto, c’è una domanda che mi sono sempre posto: cos’è un film di Natale? È un genere a sé stante? Quali sono i canoni per rendere una pellicola tale? In cosa un’opera potrebbe essere più “di Natale” rispetto ad un’altra?
Il quesito è stato già posto diverse volte, e a venirci in soccorso vi è un articolo sul tema pubblicato su The Hollywood Reporter. Secondo l’autore, a definire un film di Natale non è tanto la data di uscita né il setting natalizio, ma quanto il Natale incide sullo storytelling. Pensiamo ad alcuni dei classici più conosciuti: Mamma ho perso l’aereo ci avrebbe coinvolto allo stesso modo se fosse stato ambientato a Ferragosto? La componente ultraterrena de La vita è meravigliosa sarebbe funzionata altrettanto bene se George Bailey avesse tentato il suicidio in primavera, come d’altronde sembrano suggerire le statistiche? E non credete che gli omicidi di Black Christmas sarebbero stati più banali se eseguiti durante lo spring break? Altri temerari si sono cimentati nell’arduo compito di definire ancor più scientificamente il costrutto utilizzando criteri più stringenti del DSM-5, ma francamente mi atterrei al parametro citato dall’Hollywood Reporter.
Faccio una piccola confessione: sebbene mi consideri molto conservatore riguardo alle feste, per anni e anni non ho avuto un vero e proprio film da guardare in loop durante questo periodo. La tradizione mi imponeva di piangere come un deficiente davanti a Il Canto di Natale di Topolino e ridere di fronte agli special natalizi di South Park (straconsiglio quello dell’ottava stagione), ma non c’era un vero e proprio lungometraggio che scandisse ogni anno il passaggio delle festività (a parte riguardare i cinepanettoni con i bro, ma tanto questo segreto non uscirà dalla bozza). Per questo motivo, lo scorso anno sono andato a spulciare tra titoli più o meno di nicchia nella speranza di creare una nuova tradizione con un film che rispecchiasse i miei gusti e, al tempo stesso, mi facesse provare la magia che associavo al Natale quando ero piccolo.
Il film che più di tutti si avvicina a questa definizione e di cui vorrei dire due parole è Les Parapluies de Cherbourg, musical in tre atti diretto da Jacques Demy e vincitore del Grand Prix (quell’anno il premio più importante) al Festival di Cannes del 1964. La vicenda, ambientata a Cherbourg, in Normandia, ad inizio anni ’60, riguarda l’amore tormentato tra due giovani, il meccanico Guy (Nino Castelnuovo, scomparso quest’anno) e la commessa Geneviève (interpretata da una splendida Catherine Deneuve) che aiuta la madre a gestire un elegante negozio di ombrelli.
Les Parapluies de Cherbourg si inserisce come secondo capitolo all’interno di un’ipotetica trilogia di melodrammi diretta da Demy che comprende anche Lola (1961) e Les Demoiselles de Rochefort (1967). Sebbene l’autore in un’intervista abbia dichiarato di rifiutare l’etichetta “romantica” associata alla serie, è lampante che le tre opere condividano non solo alcuni personaggi ma anche lo stile: in particolare, il linguaggio visivo utilizzato da Demy lo nobilita come auteur e lo rende un unicum tra gli autori degli anni ’60. Molti esperti di scienze della comunicazione[1] si sono soffermati su quanto la scoperta della fotografia abbia modificato la riproduzione visiva nel ventesimo secolo: grazie a questa, i filmmaker avevano la possibilità di ricreare un evento concreto in maniera più precisa rispetto al passato. Sebbene, anche grazie alle teorie Gestalt, i cineasti si resero presto conto che la fotocamera non rappresentava la realtà in maniera così obiettiva, la critica ha continuato a sostenere che una certa forma di realismo visivo fosse la caratteristica peculiare dell’arte cinematografica. Tanti autori degli anni ’60 si sono resi conto di questa illusione ed hanno cercato di sfruttarla: si pensi, per esempio, al “cinema di poesia” pasoliniano, al Godard “radicale” post-’68 e ai film sperimentali di Warhol.
Jacques Demy segue senz’altro questa tendenza, considerando quanto l’uso del colore è centrale nei suoi film: da sempre amante della pittura, ha dichiarato di ritenere pittorica anche la rappresentazione cinematografica e, per questo, di voler offrire agli spettatori un’immagine molto ricca e dettagliata. Se la tavolozza in Les Demoiselles de Rochefort è predominata da tonalità pastello molto armoniche, in Les Parapluies de Cherbourg spiccano colori brillanti e accesi spesso in forte contrasto cromatico tra loro. Secondo quanto scritto da Mereghetti 2, una scelta così antinaturalistica sposa perfettamente sia i vestiti che lo stato d’animo dei personaggi, “indicando un’aderenza mimetica delle persone al contesto sociale in cui vivono tutt’altro che felicemente”. A questa caratteristica si affianca un’altra peculiarità del film, ovvero che tutti i dialoghi sono cantati e non ballati seguendo la splendida colonna sonora di Michel Legrand. Considerando gli elementi sopra menzionati, nel primo atto (Le Départ) Les Parapluies de Cherbourg potrebbe sembrare una deliziosa favola per adulti e nulla più, un divertissement con il più classico degli happy ending alla stregua di altre opere dell’autore (non tanto il precedente Lola quanto Les Demoiselles de Rochefort e Peau d’âne). Tuttavia, il film già nella seconda parte (L’Absence) rivela una sfumatura più mesta, dal momento che Geneviève soffre per la lontananza dell’amato Guy, partito per la leva obbligatoria in Algeria. La terza ed ultima parte (Le Retour) riguarda il ritorno di Guy in Francia e il suo tentativo di ricostruirsi una vita dopo la guerra, e culmina nello struggente finale ambientato durante la Vigilia di Natale del 1963.
Come sottolineato prima, il cinema di Jacques Demy è stato spesso frainteso a causa dello stile colorato e allegro: non sorprende che non fosse particolarmente apprezzato da diversi critici ed addetti ai lavori, in particolare Godard (che aveva comunque elogiato Lola tanto da riproporne alcune frasi in Une Femme est une femme) e Pauline Kael. Le principali critiche poste a Demy riguardavano una presunta sostituzione della sostanza con lo spettacolo, l’aver strizzato troppo l’occhio ai musical americani (specialmente con Les Demoiselles de Rochefort) e la mancanza di quella componente politica che aveva caratterizzato soprattutto la Rive Gauche. Tuttavia, basta uno sguardo più attento per comprendere quanto possa essere superficiale appiattire la sua produzione ad una serie di vivaci favole feel-good ed apolitiche: in primis, Demy è sempre stato oppositore della borghesia e fiero delle sue origini proletarie, come sua moglie Agnés Varda mostrò nel film Jacquot de Nantes nel 1991. Inoltre, il suo cinema si focalizza spesso sulla classe operaia: oltre ai già menzionati protagonisti di Les Parapluies de Cherbourg, la sua ultima opera Une Chambre en ville tratta direttamente le lotte sindacali avvenute a Nantes nel ’55 ed assume toni più vicini alla tragedia che al melodramma.
Riprendendo le parole di Flavio Vergerio3, “Demy è il cantore dei destini incrociati, degli amori perduti, del caso che condiziona l’esistenza umana, di una sessualità ambigua e ambivalente, dei conflitti di classe che determinano le relazioni fra gli uomini, dell’impossibilità di essere felici, della ricerca inesausta di un mondo di bellezza e di armonia”. Questa definizione si addice perfettamente all’opera del ’64, che mostra come la distanza, il tempo e gli eventi storici (come la guerra) affievoliscano anche l’amore più forte e puro, sottolineando, in queste circostanze, la necessità dei sentimenti e del calore umano.
Unico per stile, affascinante e malinconico e più denso di quanto possa apparire, Les Parapluies de Cherbourgha incantato generazioni di appassionati e riscosso un enorme successo di pubblico e di critica, tanto da sedimentarsi nell’immaginario collettivo grazie alle numerose citazioni e tributi fatte nel corso degli anni. Ad esempio, Damien Chazelle lo ha citato tra i suoi film preferiti e ha dichiarato che è stato un’ispirazione per La La Land; viene inoltre proiettato nel cinema in cui si nasconde Giulia ne La meglio Gioventù di Marco Tullio Giordana; infine, ne esistono diversi adattamenti teatrali, è stato prodotto un dimenticabile cortometraggio parodia intitolato Les Bicyclettes de Belsize ed è stato riproiettato alla Croisette in una versione restaurata nella sezione Cannes Classics del 2013.
Come citato nella rassegna Blue Christmas di Criterion, le feste natalizie possono portare anche uno stato d’animo malinconico che ha ispirato alcuni dei più grandi cineasti del mondo: se non foste in vena del solito Una poltrona per due, i titoli citati potrebbe fare al caso vostro. Tra questi, non posso non consigliare Les Parapluies de Cherburg: dategli una chance in una di queste fredde sere davanti a una tisana o una cioccolata calda, è anche su Mubi insieme a tanti altri titoli di Demy.
1 Prints and Visual Communications, William M., Ivins Jr., 1969, The MIT Press
2 Il Mereghetti – Dizionario dei film 2011, Paolo Mereghetti, 2011, B.C. Dalai Editore
3 Flavio Vergerio, in “Jacques Demy e un po’ di Varda”, Bergamo Film Meeting 2001
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