Skip to main content

di pavel

Cosa succede se uno yacht di lusso, durante una crociera, affonda e il gruppo di ricconi a bordo, una volta approdato su un’isola deserta, deve lottare per la sopravvivenza? Triangle of Sadness, ultimo lavoro di Ruben Östlund, prova a raccontarcelo. Senza colpire a fondo, aggiungerei. Memore del grande successo del regista svedese qualche anno fa, con The Square, che avevo adorato e che aveva vinto il primo premio a Cannes, ero davvero curioso di vedere cosa quest’ultimo suo lavoro avesse raggiunto per fargli guadagnare una seconda Palma d’oro. Cioè, una Palma d’oro è cosa rara. Figuriamoci due. Aggiungiamo che le vinci consecutivamente per i tuoi ultimi due film presentati a Cannes. È più unico che raro, insomma. Ebbene sì, è stato un abbaglio. Non servirebbe nemmeno dire che, uscito dalla sala, mi son chiesto cosa abbiano visto a Cannes quest’anno, dato che ricordavo una selezione decisamente più interessante. Meno lungo e meno incisivo del primo, ma anche più noioso e raffazzonato, a me questo Triangolo di Tristezza mi è sembrato più un Cerchio, ermeneutico, di Noia e Frustrazione. Caro Ruben, ma che fai?

“Triangle of Sadness” di Ruben Östlund (Credits: Fredrik Wenzel)

La storia, divisa elegantemente in tre capitoli, come piace al cinema mitteleuropeo più d’essai, comincia con le avventure di una coppia di ragazzi, un modello (Harris Dickinson) e una influencer (Charlbi Dean), che nasconde la propria crisi protoconiugale dietro litigi di trenta minuti sulla divisione equa del conto al ristorante e nozioni di postfemminismo. Nulla da eccepire, finora. Östlund, anche quando sottotono, ci regala dialoghi sempre brillanti. Mi chiedo spesso, soprattutto quando rido alla comicità straniera, se forse siamo noi italiani ad essere abituati male, con la nostra tensione bipolare tra drammi Lucky Red tratti da autobiografie edite Einaudi da una parte, e Boris dall’altra.

“Triangle of Sadness” di Ruben Östlund (Credits: Fredrik Wenzel)

Segue la seconda parte del film, dove i due ragazzi sono catapultati su una nave di lusso, che tra l’altro non è nientepopodimeno che la celebre Christina O, appartenuta ad Aristotele Onassis. Apprendiamo, poco dopo, che i due hanno, per grazia della loro bellezza e fama, vinto una crociera.  Sì, sono d’accordo: essere belli non è mai stato così importante come oggi. Qui lo schermo si allarga, e accoglie altre strane figure: come un dipinto di Renoir o una panoramica sui personaggi della Comédie Humaine balzachiana, ci vengono presentati un programmatore informatico multimilionario con seri problemi relazionali, una simpatica donna paralizzata che pronuncia la stessa frase per tutto il film, una coppia di deliziosi signori inglesi che ha capitalizzato la propria fortuna sulle mine antiuomo, e un ricco venditore di letame col suo harem. Tra bagni di sole e piccole esplosioni di gelosia, tutto sembra andare a meraviglia fino a quando Vera, la moglie dell’oligarca russo, vuoi per senilità o ebbrezza da bollicine, ordina a tutto l’equipaggio di prendersi una meritata pausa e di andare a farsi un bagno.

“Triangle of Sadness” di Ruben Östlund (Credits: Fredrik Wenzel)

In questo teatrino di maschere brechtiane molto colorito ci ho visto la critica di classe delle opere di Genet, la nobiltà ebete e la servitù scaltra, insomma, il gioco del topo e del gatto, i ruoli che si invertono. E difatti ho trovato questo mosaico di aristocratiche umanità dissociate il punto più forte dell’intero film. Un plauso, a parte, è da riservare agli attori, tutti molto grotteschi, così come il tono assurdo che la scrittura imposta nella narrazione da questo punto in poi. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, recita un detto, e così i ricchi naïfs e buoni di cuore capitolano: quello che a primo acchito era apparso come l’atto strampalato e spassionato di una facoltosa signora annoiata, si rivela l’innesco della bomba: a tutti i comparti lavoratori della nave è dato l’ordine di immergersi nell’acqua; galeotta è la cucina, che rimane senza supervisione: il delicato pesce in fase di lavorazione per la cena del Capitano da destinarsi quella stessa sera va, come da programma, a male; nel frattempo il Capitano stesso, un pazzo alcolizzato che da giorni non esce dalla sua stanza, si rivela ai nostri occhi nelle vesti di un Woody Harrelson come-sempre-in-stato-di-grazia che non riesce, in ultima istanza, a salvare la nave che affonda. Durante la cena, tutti o quasi tutti i passeggeri rimangono intossicati; come a far da chiusa a questa sinfonia, sulle note del famoso Minuetto del Boccherini, la nave attraversa una tempesta che non aiuta gli stomaci sensibili, tanto che i passeggeri si dilettano in una profusione di espulsioni: a tavola, in cabina, sul ponte, per le scale, in piedi e seduti, tutti cagano e sboccano: se Östlund avesse voluto sottendere, dietro quest’immagine, un significato più profondo, magari una lettura più raffinata del vecchio “tutti i fiumi portano alla stessa foce”, l’eccessiva durata di questo intermezzo, oltre venti minuti, arriva al voltastomaco della pornografia visuale fine a se stessa. E il fatto che siano tutti i ricchi a vomitare non rende la scena più divertente, anzi.

Triangle of Sadness di Ruben Östlund
“Triangle of Sadness” di Ruben Östlund (Credits: Fredrik Wenzel)

Nel frattempo, nel disordine più totale, un gruppo di pirati si avvicina allo yacht, sgancia una bomba a mano e la lancia sul ponte; a raccoglierla, come da copione, non può non essere la simpatica coppia che l’ha inventata e messa in commercio. E anche qui rido, ma i denti sono già stretti. La nave affonda, sulle battute e controbattute di un duello ideologico tra il capitano, il marxista disincantato Harrelson e Dimitrij, il magnate russo venditore di ‘merda’, il quale si rivela un liberal-atlantista con il mito di Churchill: l’americano comunista e il russo capitalista. Una barzelletta molto esilarante, se il film fosse uscito quarant’anni fa.

“Triangle of Sadness” di Ruben Östlund (Credits: Fredrik Wenzel)

E anche qui mi chiedo cosa sia successo alla scrittura: questo botta e risposta calante, solipsistico, non lontano da qualsiasi sproloquio tra due zii di fazioni opposte che discutono sul reddito di cittadinanza ad un pranzo di Pasqua, tocca ma non commuove, fa ridere a denti stretti, ma non scompisciare dalle risate, colpisce ma non affonda. E nel frattempo, mentre i due personaggi più simpatici della storia sono alle prese con discorsi aggiornati alle scalette di qualsiasi dipartimento di Lettere e Filosofia nel 1986, la nave naufraga, in una rivisitazione in chiave postmoderna del Titanic ai tempi della crisi ambientale, dell’esaurimento energetico, dell’nft-based-economy e dei modelli su Instagram. Non nasconderò di aver sperato fino all’ultimo momento che il nostro Captain Fantastic si salvasse, saltando aggrappato ad una bottiglia di whiskey su una scialuppa per poi approdare sulle coste di Cuba, a tal punto che ho pensato che questo film fosse una rivisitazione umoristica della parabola della Costa Concordia, con tanto di comandante ubriaco, antisociale e impenitente. Per il tempo rimanente, invece, ho pensato che il film fosse il vlog delle vacanze in crociera sul Mediterraneo di Östlund insieme ai suoi amici cinematografari.

Triangle of Sadness di Ruben Östlund
“Triangle of Sadness” di Ruben Östlund (Credits: Fredrik Wenzel)

La terza e ultima parte ci trasporta sulla spiaggia di un’isola all’apparenza deserta, dove i pochi sopravvissuti al naufragio dipendono da Abigail (Dolly De Leon), un’inserviente della nave, la quale è l’unica in grado di accendere un fuoco e procacciare del nutrimento: simpatico highlight è il rovesciamento delle dinamiche di potere, dove il simbolo per eccellenza della servitù democratizzata è la donna (che non può non essere filippina) che instaura un matriarcato e si rimedia pure un toy boy. Del finale non farò menzione, perché non l’ho trovato interessante o emblematico; ma piuttosto il risultato sgualcito di quelle direttive da corso di scrittura creativa che sottolinea l’importanza del finale aperto, confuso: in parole povere, senza senso. Vi basti sapere che se la pellicola comincia nel solco di commedia dark dai tratti british, si trasforma in un’imbarazzante patchwork di volgarità degne di una saga all’American Pie, edulcorate da osservazioni brillanti tanto quanto il gel impiastricciato sui capelli argentati del boomer seduto alla mia sinistra (emotivamente indisposto durante tutta la durata del film) per poi scadere in una parodia di quei reality show che testano la fedeltà di coppie di Uomini e Donne lasciati a fornicare come conigli su qualche isola dei Caraibi.

“Triangle of Sadness” di Ruben Östlund (Credits: Fredrik Wenzel)

E se l’intenzione era di restituire una realtà gattopardesca e privilegiata, decostruita nelle sue contraddizioni, il risultato è una serie di gigs alla stregua di Love Boat.  Ed è un peccato, perché in sintonia con l’universo di immagini pertinenti alla romantica deriva capitalista tanto poteva essere fatto. Questo lavoro appare, invece, come una sinossi ad una bozza di qualcosa che poteva essere e non è stato. Ma non è tanto la prevedibilità dell’intero arco narrativo; è piuttosto l’ambiziosa pretesa di far ridere. Di far ridere chi, poi? Östlund ha scritto e diretto questo film per una precisa classe di individui: non perché realmente sentito, questo lento e lungo esame filo-etico si configura come divertissement per tutti quei borghesotti cinefili intellettualoidi che hanno bisogno di ridere degli altri per ricordarsi di essere intelligenti; se non fosse così allora riterrei, a buon giudizio, che Östlund dal 2017 a questa parte abbia fatto troppe crociere.

Triangle of Sadness di Ruben Östlund
“Triangle of Sadness” di Ruben Östlund (Credits: Fredrik Wenzel)

Triangle of Sadness sembra il trailer di un film che ti raccomandi di vedere e che invece non vedrai mai, perché in fondo il tuo sesto senso ha più gusto critico della giuria di selezione di Cannes. Tutto ciò che potrebbe tagliare smussa, e ciò che potrebbe divertire finisce per annoiare o, addirittura, infastidire. E, infine, le porte che potrebbero aprire a vie più complesse si risolvono in un vicolo cieco, dove le citazioni non producono senso e i rimandi rimandano ad altri rimandi.  Penso che il regista svedese abbia preso la realizzazione di questo film un po’ come io prendo le diete: i primi due tre giorni di rigorosa, attenta precisione anatomica preannunciano il cedimento alla tentazione infrasettimanale, con tanto di abbuffata da aver male alle carotidi, per approdare, infine, ad una rassegnazione inerziale dove ormai non esiste più religione, traiettoria, regia: solo coliche, nausea e tanta merda. Certo è che io la collaborazione con un’azienda di tisane dimagranti me la meritavo. Östlund, la seconda Palma d’oro, no. Sono uscito dal cinema con l’amaro in bocca, più confuso e sconfortato di come ero entrato. Due cose, però, sono sicuro di averle imparate: la prima è che uno Scola, con lo stesso copione, avrebbe fatto un lavoro molto più carino. La seconda, che conferma i miei recenti dubbi sulla direzione che ha preso l’industria cinematografica, è che ormai anche il cinema dei festivals è diventato retaggio dei ricchi, ma di quelli stronzi, che giustificano le loro stronzate con qualche lettura filosofica postmoderna: Onassis almeno Derrida non lo leggeva.

4 Comments

Leave a Reply