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di virginia

Red Sky at Night fa parte di un progetto più ampio, iniziato due anni fa con il documentario West of Babylonia (2020). Si tratta del secondo passo di una “trilogia ideale” portata avanti da due autori, Emanuele Mengotti e Marco Tomaselli. Se nel primo documentario si indagava una comunità ai confini del mondo, stavolta ci troviamo ad osservare una situazione particolare, dato che il documentario è stato girato a marzo 2020. I due autori si trovano a Las Vegas per seguire alcuni personaggi e raccontarne le storie – più o meno legate alla Las Vegas che tutti conosciamo attraverso i film e la cultura popolare. È il secondo passo dentro questa sorta di trilogia che ci mostra tutto quello che di lontano e inimmaginabile c’è, dal punto di vista di noi spettatori europei, negli Stati Uniti al giorno d’oggi.

Abbiamo incontrato Marco “Toma” Tomaselli, direttore della fotografia, per conoscere che cosa ha portato alla genesi del progetto e alla realizzazione di un documentario che mostra un lato “inedito” della Las Vegas che tutti conosciamo.

Red Sky at Night (Credits: IMDb)

Come è nata l’idea del progetto?

Mengotti si trovava già a Las Vegas, mentre io sono arrivato nel preciso momento in cui in Italia venne dichiarato il lockdown nazionale. Salii sul volo per Los Angeles, per poi andare a Las Vegas, proprio nel momento in cui l’Italia chiudeva agli altri Paesi. Ancora non si sapeva niente della pandemia o del lockdown stesso e il progetto sarebbe dovuto essere leggermente diverso, seguendo una storia sola e senza avere a che fare con il Covid-19. Ci siamo presto resi conto che questa situazione era qualcosa che non avremmo potuto evitare e, nel momento in cui stavamo andando in macchina a Las Vegas, io e Mengotti abbiamo deciso con uno sguardo io che la parte creativa del progetto avrebbe subito dei cambiamenti. Giriamo documentari d’osservazione, quindi non facciamo interviste: tutte le scene sono completamente accadute nella realtà davanti a me, Emanuele Mengotti ed alla cinepresa senza nessun aiuto o altra persona, cercando sempre di stare in silenzio per non rompere la magia di quel momento lì. 

Red Sky at Night (Credits: IMDB)

Come vi approcciate alle persone o alle situazioni che volete riprendere? In base a quali criteri decidete che cosa, alla fine, entra a far parte del documentario e che cosa ne resta fuori?

Noi giriamo completamente liberi e quindi, fondamentalmente, quello che troviamo da riprendere, lo riprendiamo. Non sempre le riprese finiscono allo stesso modo: ci sono state diverse persone che, dopo averle incontrate, ci hanno concesso due chiacchiere che però non sono continuate ed è finita lì; in altre situazioni, invece, la conversazione si spinge un po’ più avanti e quindi continuiamo con una serie di riprese. Ad esempio, l’imitatore di Elvis che si vede all’inizio del documentario è un soggetto che ci sarebbe piaciuto continuare a seguire e lo avremmo fatto a tutti i costi ma, di punto in bianco, è sparito e le riprese intorno a questo personaggio si sono interrotte. 

Non arriviamo immediatamente sul posto con la camera, in qualche modo cerchiamo di conoscere le persone che andiamo a riprendere. È un incontro da cui può scaturire un grado di conoscenza più o meno superficiale e quando vediamo che è arrivato il momento di riprendere – è qualcosa che ci sentiamo di fare, non è quasi mai programmato – chiediamo se possiamo accendere la camera. Da diverse cose possiamo decidere se riprendere una scena o meno, magari, banalmente, anche una semplice frase può farci capire che ci troviamo davanti a un qualcosa di interessante. Quando iniziano le riprese non chiediamo mai a nessuno di mettersi in posa, spesso le scene iniziano in medias res, quando un’azione è già iniziata.

Red Sky at Night (Credits: IMDb)

Siamo aperti ad ogni tipo di stimolo e, mentre riprendiamo (ma anche in un secondo momento), ascoltiamo e osserviamo la reazione di chi sta dall’altra parte della cinepresa: c’è qualcuno che magari inizia a fare il buffone e divertirsi davanti alla telecamera, allora decidiamo di tranciare subito, oppure, in altri casi, continuiamo a riprendere e poi nel montaggio finale non inseriamo la ripresa. Ci sono persone che “danno più corda”, che stanno in maniera più sincera davanti alla videocamera e continuiamo ad indagare, chiedendo se ci portano a vedere alcuni posti o fare le attività che descrivono. Cerchiamo  sempre di amplificare quelle situazioni o quei personaggi che potrebbero essere interessanti da seguire; mentre riprendiamo ci accorgiamo di quella che, potenzialmente, potrebbe essere una buona occasione ma è soprattutto in seguito alle riprese, durante la fase di montaggio, che si vede chiaramente chi fornisce una storia più solida, chi è un personaggio di passaggio e chi, invece, non finisce neanche nel documentario. Si scopre via via chi è davvero interessato, non c’è mai nulla di troppo pianificato e se i soggetti non sono d’accordo, semplicemente non li riprendiamo.

Si sono mai verificati episodi in cui le persone ritratte, una volta visto il documentario, non fossero soddisfatte di come le avete riprese?

Questa è una visione che lo spettatore ha della scena che si trova a guardare sullo schermo. Prendendo come esempio la serie di riprese che vertono intorno ai trumpiani, ai sostenitori dell’ex presidente degli Stati Uniti, possiamo notare che si è venuta a creare un’atmosfera pesante, ma che alla fine non faceva altro se non rispecchiare le loro stesse azioni. Non la definirei neanche come un’interpretazione registica: queste persone, con le loro specifiche visioni politiche, si trovavano radunate con i loro fucili, con le loro armi, e c’è poco da dire se non che quello era il preciso messaggio che si erano prefissi di mandare.

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Red Sky at Night (Credits: IMDb)

Per il nostro punto di vista, spesso finiamo a fare questo discorso, un po’ come a giudicare le loro azioni attraverso il filtro di quello che pensiamo noi in quanto spettatori. Loro, invece, d’altra parte, guardando la clip che li ritrae con i fucili imbracciati e la musica di sottofondo, probabilmente si sentono orgogliosi e fieri del loro operato, date le loro ferme convinzioni. Quando ci troviamo in queste situazioni, noi che siamo lì sul momento, non facciamo altro che accendere la camera e lasciare loro fare quello che vogliono. Sì, è pur vero che, alla fine, il montaggio e la musica creano una certa atmosfera ma principalmente diamo aria alle cose che attirano la nostra attenzione, lasciando fare tutto ai soggetti ripresi; non abbiamo chiesto una singola domanda nel corso del documentario  se non per farci vedere qualcosa che già ci stavano facendo vedere. Le riprese sono tutte il più possibile in silenzio, anche perché molto spesso è più intrigante lasciare quello che vogliono fare invece di dire alle persone riprese che cosa devono fare, in un mondo così lontano – geograficamente e non – dal nostro, tutto attira la nostra attenzione.

Sì, quello di Las Vegas – ma anche degli Stati Uniti in generale – è sicuramente un mondo molto lontano dal nostro, lontano dall’Europa. A tal proposito, com’è davvero Las Vegas? Quello che solitamente associamo alla città è soprattutto lo stereotipo dei casinò e del gioco d’azzardo; la frase più ricorrente che si sente dire sottolinea quanto sia un luogo “finto”, ma il documentario si occupa di tutt’altro, smentendo questa serie di luoghi comuni.

Sì, Las Vegas è quello che si vede in Una notte da leoni (2009) nella Strip, ovvero la strada principale, una strada esageratamente lunga. È lo scenario che ci viene in mente se pensiamo a Las Vegas: sulla Strip ci sono tutte le luci ed i casinò principali – anche questi di grandissime misure, tra l’uno e l’altro ci saranno cento o centocinquanta metri. Insieme a questa Las Vegas convive un’altra realtà, che si trova nella parte suburbana, abitata dalle persone che lavorano in città e dalle coloro che vivono ai margini della società ma sono due aspetti che non vengono mai fatti vedere al pubblico. Il centro, in quel preciso periodo, quando più o meno tutti i Paesi stavano iniziando a chiudere le attività per contenere il virus, era vuoto e faceva impressione. Si trovavano per strada pochissime persone, soprattutto quelle marginalizzate e senza casa ma probabilmente questa è la vera Las Vegas, non quella fatta di lucine colorate.

Red Sky at Night (Credits: La Compagnia)

Avete incontrato difficoltà, durante le riprese, dato che avete iniziato il documentario contemporaneamente alla diffusione del Covid-19? Sono serviti particolari permessi per portare avanti il progetto?

In realtà, da questo punto di vista, non abbiamo riscontrato particolari ostacoli o difficoltà. Ancora non erano stati emanati tutti i protocolli che nei mesi successivi sarebbero arrivati per regolamentare il lavoro, non sono serviti permessi proprio perchè ci trovavamo all’inizio della pandemia e le regole per il contenimento del contagio non erano molto chiare e definite. Questa combinazione di eventi ci ha permesso di andare avanti con il progetto, modificandolo in base alla situazione contingente, e concedendoci al tempo stesso alcune riprese dotate di valore storico. Ad esempio, siamo riusciti a catturare alcune insegne dei più famosi casinò spente ma si tratta di luci che non erano mai state spente dall’inizio dei tempi, dal giorno dell’apertura di questi casinò. Per il resto, comunque, non sono serviti permessi se non per intervistare le persone. I protocolli su come comportarsi sono arrivati mesi dopo, al tempo non c’era ancora niente. Ci sono state due o tre settimane di ritardo che ci hanno permesso di fare questo lavoro, ancora non c’erano regole ma sapevamo che prima o poi sarebbero arrivate e per questo ne abbiamo approfittato.

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