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di virginia

 

★★★★

Sono finalmente riuscita a recuperare Elvis, dopo averlo accuratamente perso per una serie di sfortunati eventi alla 75° edizione del Festival di Cannes, nell’arena estiva di una minuscola cittadina di mare. Il bello di questi cinema estivi è la grande varietà di persone che compongono la platea di spettatori: mentre ero in fila per fare il biglietto non potevo fare a meno di domandarmi chi, tra un consistente gruppetto di over 65 e vari bambini al seguito dei genitori, avrebbe abbandonato per primo la sala. Quanto erano consapevoli del fatto che stavano per comprare il biglietto per un film di Baz Luhrmann dalla durata di due ore e quaranta? Tutte domande che, in realtà, mi sono posta anche io nel momento in cui ho preso la decisione di andare a vedere il film: visto che le tribune sono le stesse in legno da quando ha aperto il cinema (forse tra gli anni Settanta e Ottanta), devo confessare di non aver riposto inizialmente molta fiducia nella buona riuscita di questa esperienza.

Austin Butler in “Elvis” di Baz Luhrmann (Credits: Warner Bros Pictures)

“elvis is a nightmare”

Come dicevo, non ho avuto modo di vedere Elvis al Festival di Cannes, ma, tutto sommato, tra i film che mi sono persa della rassegna, questo non l’ho mai percepito come una vera e propria mancanza. Il giorno successivo alla proiezione (o forse addirittura la sera stessa) ricordo che iniziarono a piovere recensioni negative. “Elvis is a nightmare”, “Elvis è un incubodichiarava David Ehrlich in un tweet presto diventato tormentone – e soprattutto fonte di consolazione – per tutti quelli che, come me, non avevano prenotato un posto in sala per assistere al film. In sostanza, tutti coloro che hanno assistito ad una delle (pochissime) proiezioni ne hanno parlato male fin da subito, cosa che sicuramente ha contribuito a fare in modo che non dessi più di tanto peso al film. Ad ogni modo, il giorno successivo alla premiére, rimasi in fila per ascoltare che cosa avrebbe detto il cast alla conferenza stampa perchè, alla fine, in un modo o nell’altro, ero convinta di trovarmi davanti a delle leggende: sono cresciuta guardando Forrest Gump e Big, appartengo a quella generazione che ha sperato di incontrare Austin Butler a New York City proprio come succede in The Carrie Diaries e, alla fine, Baz Luhrmann è pur sempre il regista di Romeo + Juliet (ma non starò qui a ricordare l’impatto che il film ha avuto nei vari Skam ed Euphoria).

Austin Butler in “Elvis” di Baz Luhrmann (Credits: IMDb)

elvis passeggia per memphis sulle note di doja cat

Premetto di aver apprezzato moltissimo Moulin Rouge! (2001) – immensa epopea d’amore ambientata alla fine del XIX secolo a Parigi, ancora oggi uno dei miei film preferiti – ma di non aver amato allo stesso modo il resto dei film di Luhrmann. La ricorrente frase fatta che si sente spesso ripetere quando si arriva a parlare del regista è che il suo cinema o si ama, o si odia, senza vie di mezzo. Trattandosi di un biopic, ci si potrebbe aspettare una precisa ricostruzione storica della vita di Elvis Presley o comunque degli eventi  principali che ne hanno segnato la carriera; eppure, per quanto la storia sia fedele alla vita del cantante, al regista australiano non è mai interessata un’operazione documentaria del genere. Elvis cammina per le vie di Memphis con la musica di Doja Cat in sottofondo; vengono anticipate canzoni uscite in periodi successivi a quello in cui alcune scene prendono vita e così via. Niente di nuovo, comunque, per chi è abituato a sentire cantare Elton John nella Parigi di fine Ottocento o vedere Gatsby ballare sulla voce di Lana del Rey durante i ruggenti anni Venti. Sicuramente basare un film intero su toni massimalisti e grandiosi può essere un’opzione che fa storcere la bocca ad alcuni (in questo caso, forse alla maggior parte) degli spettatori, ma, oltre ad essere la firma d’autore di Luhrmann, non è comunque la stessa cosa che si è vista fare con altri (atroci) biopic? E sì, mi riferisco a tutti i Bohemian Rhapsody e Rocketman del mondo, i quali, nella loro ossessiva ricostruzione perfetta dei personaggi di cui raccontano la storia, finiscono per apparire pellicole senza vita, nonché semplicistiche caricature insopportabilmente colme di stereotipi e banalità.

L’impressione che fin da subito si ha, guardando l’ultimo lavoro del regista australiano, è di trovarsi davanti ad un grandioso spettacolo, sfarzoso ed eccessivo, come solo le giostre di un luna park riescono ad essere. È scintillante, coloratissimo, passa dal raccontare una storia all’altra nel giro di pochi secondi: fa venire il mal di testa, come sembrano aver detto in molti prima di me. In questo vortice di immagini, musica, luci, una voce ci guida nella ricostruzione della storia della vita di Elvis Presley (interpretato da Austin Butler): è quella del Colonnello Parker (Tom Hanks) che, ormai anziano, ripercorre il suo rapporto con la stella del rock, dagli esordi fino all’inevitabile interruzione del sodalizio artistico.

Elvis
Austin Butler e Tom Hanks in “Elvis” di Baz Luhrmann (Credits: IMDb)

elvis sale sulle giostre del luna park…

Il Colonnello subito dichiara il suo mestiere al pubblico: è un imbonitore. Per quanto banale e scontata la metafora possa sembrare, forse vale la pena soffermarsi sul ruolo che questo personaggio viene ad assumere, non solo nella struttura della trama, ma anche nei confronti degli spettatori in sala. Dire “imbonitore” oggi quasi equivale a dire “ciarlatano”, e, per quanto il film suggerisca un’interpretazione del genere, in realtà questa particolare accezione non corrisponde affatto a quella originaria della parola. Con il termine “imbonitore” si fa riferimento a quella figura che, durante il periodo del cosiddetto “cinema delle origini” (quando ancora non esisteva nella forma in cui lo intendiamo oggi, cioè con una cabina di proiezione, ed uno schermo), raccontava le immagini che venivano proiettate con una lanterna su sfondo bianco. Sinonimo di imbonitore, nel senso originario della parola, è infatti “lanternista”, proprio perchè operava il suo lavoro attraverso lo strumento della lanterna. Si trattava quindi una sorta di narratore, che accompagnava le ombre che si susseguivano su uno sfondo per raccontare una storia lineare al pubblico: dalle ombre prodotte dalla lanterna, derivavano racconti animati che prendevano vita grazie a questa voce narrante. Generalmente, l’imbonitore trovava un posto di lavoro privilegiato durante fiere o manifestazioni popolari, situazioni in cui potessero esserci forme di intrattenimento ed è proprio da questo contesto che la carriera del Colonnello e, di conseguenza, quella di Elvis, prende le mosse.

…e l’imbonitore colpisce ancora

Il Colonnello Parker, quindi, così come nella vita reale aveva il ruolo di raccontare storie al pubblico lasciando un sorriso e al tempo stesso rubando loro denaro – così afferma, infatti, il personaggio – allo stesso modo, svolge questa funzione di voce narrante per lo spettatore, aiutandolo a ricostruire il turbine di immagini che si sovrappongono sullo schermo. Il film recupera molto dalla dimensione fieristica e spettacolare, restituendo quindi alla parola “imbonitore” il suo significato originario: la storia non viene semplicemente narrata, tutti ne partecipano e lo spettatore ne è inevitabilmente coinvolto, anche grazie alle note di emozione e passione che il Colonnello inserisce, spesso riferendosi direttamente al pubblico e rompendo la cosiddetta “quarta parete”, quella che separa la pellicola dagli spettatori in sala.

Elvis
Austin Butler e Tom Hanks in “Elvis” di Baz Luhrmann (Credits: IMDb)

A questa altezza del film la metafora con quella che è stata la storia del cinema diventa evidente: da un periodo in cui il cinema ancora non era quella forma di intrattenimento completa che conosciamo oggi, passando per un periodo di crisi dovuto alla scarsa originalità delle proposte, fino ad una grandiosa rinascita come forma d’arte a sé stante, colorata e sgargiante, destinata ad avere grande successo senza il supporto esterno di un narratore – tutte tappe che la carriera di Elvis Presley ha conosciuto e attraversato.

elvis si innamora

Questa meravigliosa giostra dei divertimenti, però, si interrompe drasticamente a partire dalla seconda metà della pellicola e forse non è un caso che la figura del Colonnello, da questo momento in poi, progressivamente si allontani sia dalla vita dell’artista, sia dagli spettatori. La prima parte del film scorre a ritmi frenetici e quasi convulsi, non lasciando mai il tempo neanche di riflettere su cosa stia o non stia combinando Elvis: nel giro di pochi minuti vengono ripercorse le principali tappe della sua infanzia, adolescenza e inizio carriera, e, in questo ridotto arco di tempo, si trova anche un inserto a fumetti che racconta la drammatica storia del padre in carcere. La seconda parte, invece, perde molto ritmo, rallenta e diventa introspettiva ma, per fortuna, alcuni stereotipi classici dei biopic (quanto più famosa la star in questione, tanto più tormentata sembra essere) vengono liquidati in brevissime scene: la dipendenza da droghe, il divorzio con Priscilla (interpretata da Olivia DeJonge), la rottura della famiglia perfetta che Elvis pensava di aver creato occupano pochissime linee di dialogo nel film.

Elvis
Austin Butler e Olivia DeJonge in “Elvis” di Baz Luhrmann (Credits: IMDb)

elvis presley, no, austin butler si trasforma

Di tutte le recensioni o critiche che si sono lette fino ad ora, comunque, una menzione d’onore viene sempre riservata ad Austin Butler, la cui interpretazione in molti sperano di veder premiata con un Academy award. Confesso che l’ultima volta in cui ho visto recitare l’attore statunitense è stato, per pochi minuti, in C’era una volta a Hollywood (2019) di Quentin Tarantino, dove interpretava il ruolo di Tex, uno dei membri della setta di Manson. Se non fosse per qualche linea comica piazzata bene, mi sarei anche dimenticata che si trattava di Austin Butler in quel ruolo, ma qui, in quello che sembra configurarsi come il tanto decantato ruolo della vita, riesce a reggere un film di quasi tre ore di durata sulle proprie spalle. Sul fatto che quella di Butler sia una grande interpretazione non ci sono dubbi, anzi; quella che però si potrebbe aprire a riguardo è una parentesi su quanto ci si possa spingere per interpretare un ruolo del genere.

Austin Butler in “Elvis” di Baz Luhrmann (Credits: Warner Bros Pictures)

L’attore protagonista, in conferenza stampa, sempre durante la scorsa edizione del Festival di Cannes, dichiarò di non aver mai cantato o suonato seriamente nel corso della sua vita, se non sporadicamente per fare colpo su qualche ragazza. Eppure questa non è l’impressione che si ha vedendolo nei panni di Elvis, di cui imita in ogni singolo dettaglio movimenti, atteggiamenti e non solo l’accento, ma persino il timbro di voce. Non è certo una novità che un attore si immedesimi a livelli estremi con il ruolo che deve impersonare; recentemente hanno fatto il giro del mondo i discutibili metodi adottati da Kristen Stewart nell’interpretare il ruolo di Diana Spencer in Spencer (2021) di Pablo Larraìn, essendo l’attrice arrivata a sottoporsi alle stesse cattive abitudini e malattie della principessa inglese. Butler sembra avere difficoltà ad uscire dal ruolo interpretato, ancora a distanza di anni: parla esattamente come parla nel film, con la voce di Elvis e quindi imitando ancora il cantante; se questa sia una grande trovata pubblicitaria o meno non so dirlo, ad ogni modo, l’Academy ha sempre dimostrato di apprezzare queste trasformazioni estreme nella recitazione, quandi, alla fine della fiera, forse per l’attore c’è davvero speranza di riportarsi a casa una statuetta.

Elvis
Austin Butler in “Elvis” di Baz Luhrmann (Credits: IMDb)

elvis è l’eroe della storia

In conclusione, Elvis riesce ad essere tutto quello che intende e vuole essere: una luccicante esibizione, carica di esagerazioni per un artista che, nel corso della sua carriera, esagerato è sempre stato. Se la contrapposizione tra il “buono” Elvis e il “cattivo” Colonnello assume toni quasi fiabeschi, dove le caratterizzazioni dei personaggi sono fisse e ben connotate, comunque questo procedimento rientra molto bene nel grande disegno del regista di rendere questa pellicola uno spettacolo adatto e piacevole per ogni tipo di pubblico.

P.S. : In caso qualcuno se lo stesse ancora chiedendo, nessuno tra gli over 65 e i bambini della platea ha abbandonato il film, anzi, in diversi punti del film potevo distintamente sentire qualcuno cantare e commentare animatamente le sbagliate scelte di Elvis / Austin Butler, come se questo potesse influenzare l’esito del film.

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