Skip to main content

di giuseppe

Stanley Kubrick nel 1956 non ha neppure trent’anni. Definitivamente abbandonata la carriera fotografica, si dedica a tempo pieno al suo lavoro di regista. I suoi precedenti film – tre corti e due lungometraggi – caratterizzati dal basso budget e da un relativo disinteresse nella distribuzione da parte delle major cinematografiche, hanno raccolto ben poco successo. Unitosi in società col produttore James B. Harris, acquista i diritti del romanzo hard boiled di Lionel WhiteClean Break, ne ricava una sceneggiatura grazie alla collaborazione ai dialoghi di Jim Thompson e, con la coproduzione della United Artists, si prepara a girare il nuovo progetto: Rapina a mano armata.

il genere: l’heist movie

Il film, dall’evocativo titolo originale The Killing, appartiene a quel sottogenere del noir detto heist movie (o caper movie), in cui il fulcro della narrazione – convenzionalmente tripartita – è costituito dagli eventi di una grande rapina ad opera di una banda. Quando Kubrick dirige il suo film, la diffusione dell’heist movie è già ampiamente attestata non solo nel cinema americano. Registi come Jacques BeckerJules Dassin e Jean-Pierre Melville, in Francia, hanno portato sullo schermo figure romantiche di criminali senza scrupoli, intenti a preparare il colpo più grande e rischioso della loro vita. Kubrick stesso, consapevole di questa, pur breve, ma già ricca tradizione, sceglie di affidare la parte del protagonista a Sterling Hayden, che il pubblico americano era in grado di associare al contesto del noir metropolitano, riconoscendolo ora nelle vesti di gangster, ora in quelle di poliziotto. Aveva infatti partecipato, in un ruolo centrale, al prototipo del caper movie: diretto da John Huston – dopo che Il mistero del falco aveva gettato le fondamenta del noir – Giungla d’asfalto nel 1950 aveva codificato le principali caratteristiche del “film sul colpo grosso”, mantenendo gli aspetti tipicamente fatalistici del genere di riferimento.

Il film di Kubrick, costruito con un’esattezza pari a quella della rapina progettata dai suoi protagonisti, comunica con grande immediatezza un clima di urgenza, incertezza, precarietà. Quattro uomini vengono riuniti dall’ex carcerato Johnny Clay, intenzionato, prima di sposare la fidanzata Fay, a derubare le casse dell’ippodromo cittadino negli istanti successivi alla grande corsa in programma pochi giorni dopo. Fanno parte della banda: George, uno dei cassieri del centro scommesse, la cui moglie bizzosa e anaffettiva, Sherry, minaccia costantemente di lasciarlo; Mike, barista dell’ippodromo, che prende parte al colpo allo scopo di pagare le cure della moglie malata; Randy, poliziotto corrotto nei guai con i creditori; Marvin Hunger, un contabile, primo contatto di ognuno dei membri del gruppo e finanziatore dell’operazione.

La narrazione è fin dall’inizio scandita dall’intervento posato di una voce fuori campo. Questa assume i tratti tipici del cinema classico – sta al di sopra e al di fuori degli eventi, è oggettiva, affidabile e maschile – e ricopre due semplici funzioni: introdurre i personaggi e segnalare i salti temporali, da un’ora all’altra, da un giorno all’altro, nel corso dello svolgersi degli eventi. La storia copre un arco cronologico breve: tre giorni – non consecutivi – in cui l’impostazione, l’applicazione del piano e le sue immediate conseguenze si delineano per la maggior parte in modo lineare. La sincronia è interrotta da alcuni flashback che sembrano predire uno sperimentalismo nell’incrociare i piani temporali che avrà grande fortuna nei caper dei decenni successivi. Lunghi carrelli esplorano, con occhio partecipe e mai moralista, questo sottobosco criminale claustrofobico, in cui non c’è alcuna illusione di verità, solo una ricerca spasmodica di raggiungere il proprio scopo. Il ritmo serrato con cui sono accostate le sequenze, la costante indicazione dello scorrere del tempo, il refrain martellante della colonna sonora contribuiscono a determinare la compattezza del film e dimostrano come Kubrick, anche all’interno della gabbia prefissata del cinema hollywoodiano di genere, cercasse di forzare in modo originale i codici della narrazione tradizionale.

l’interpretazione: i codici del noir e l’originalità di Kubrick

Il colpo messo in scena è ambizioso e determinato da una logica fredda e lucida simile a quella che domina sul gioco degli scacchi. Non a caso, gli scacchi furono una delle grandi passioni1 di Kubrick e un elemento ricorrente nella sua filmografia (su tutti, si ricordi la partita fra Hal 9000 e l’astronauta in 2001: Odissea nello spazio). La simbologia scacchistica può assumere un ruolo interessante nell’orizzonte interpretativo entro cui spazia Rapina a mano armata. Sarà più facile, in questa prospettiva2, considerare il cinema di Kubrick come una continua messinscena di rapporti di forza, che la regia sottolinea variamente, pur mantenendo ruoli fissi e ambientazioni – cittadine e prevalentemente in interni – tipiche del film di genere. Quest’aspetto, però, ritornerà in tutta la carriera del regista, celandosi sotto forme diverse; in modo evidente – nell’ambito del war movie – fin dal successivo Orizzonti di gloria, in cui le alte cariche dell’esercito dispongono dei fanti come di veri e propri pedoni, sacrificandoli crudelmente.

Sembra possibile leggere in filigrana, in questa rappresentazione del potere, una connessione psicanalitica, capace di manifestare un ricco immaginario composto da pulsioni erotiche e pulsioni di morte (il pensiero cade subito alla paradossale unione di simboli sull’elmetto del soldato in Full Metal Jacket). Qui, la dinamica più peculiare in questo senso si ritrova nella relazione fra George e Sherry. La donna, che incarna classicamente l’archetipo della femme fatale, esercita un’influenza assoluta e totalizzante sul marito, di cui, non a caso, è suggerita l’impotenza.

Lo sbilanciamento nel loro rapporto è s

ottolineato anche da alcune scelte fotografiche. Sherry, avida e sprezzante, tenta di avere da George più informazioni sulla rapina che avrebbe dovuto tenere segreta. Inizialmente riluttante, George alla fine cede davanti al risentimento della moglie. In questa scena, entrambi sono a sedere, colti a mezza figura da un’inquadratura che, seguendo la lezione wellesiana di Quarto potere, mostra i soffitti dell’interno della casa e, in profondità di campo, il letto coniugale. George è catturato in penombra, con lo sguardo fisso su Sherry. Lei rivolge gli occhi a uno specchio invisibile allo spettatore, mentre si pettina i capelli e si prepara per uscire (scopriremo in seguito che è diretta da Val, il suo amante, vero motivo del fallimento dei piani della banda). L’unica (apparente) fonte di luce, sul lato destro, la investe illuminandole il viso. Sherry mette in atto una subdola opera di manipolazione nei confronti del marito che vive – qui letteralmente – all’ombra di lei.

Da un altro punto di vista, l’heist movie ben si presta a diventare veicolo della rappresentazione di una sfida impossibile su cui l’individuo deve misurarsi per elevarsi dalla massa, liberandosi da quella gabbia di ombre e architetture che, nel noir classico, lo imprigiona geometricamente. Johnny Clay, come un giocatore di scacchi, mette in atto una strategia complessa. Le sue mosse sono rigorosamente definite in base al calcolo della probabilità e modificate a seconda degli imprevisti. Egli dimostra, però, una hỳbris e uno sprezzo delle conseguenze calcolati, già di per sé tragici e votati all’insuccesso. È un eroe perdente: è chiaro fin da quando compare per la prima volta sullo schermo, mentre spiega alla fidanzata che “chi ruba poco paga quanto chi ruba molto”. I cinque anni di prigione l’hanno convinto a puntare in alto: non rischierà più per pochi dollari, ma solo per somme di denaro ben più consistenti. Un dialogo rivelatore esprime bene questa tensione che lega lo spirito agonistico e individualista del criminale e il suo fallimentare destino di eroe tragico. È proprio Maurice, lottatore e maestro di scacchi russo (interpretato da Kola Kwariani, un vero boxer prestato alla recitazione), a dichiarare a Johnny – venuto ad assumerlo per scatenare una rissa che serva da diversivo all’ippodromo – che i gangster e gli artisti sono uguali agli occhi delle masse: sono ammirati e acclamati da tutti, ma è sempre presente un desiderio nascosto di vederli crollare all’apice del loro successo. La battuta (stravolta dal doppiaggio italiano) anticipa, forse anche in senso meta-cinematografico, proprio ciò che accadrà. Lo spettatore si troverà a essere testimone di un’ascesa e una caduta rapidissime, in cui all’euforia del successo subentrerà immediata la disillusione verso ogni tipo di fuga.

Allo schema tanto preciso del piano di Johnny si frappone, come classicamente accade nel noir, una componente inattesa e incontrollabile della vita dell’uomo: l’irrazionalità del caso. Tutto il film si può appunto leggere come uno scontro – quasi un’agone, dato il contesto sportivo delle corse dei cavalli in cui si inscrive la storia – fra razionale e irrazionale. Il caso incombe sempre pericolosamente sulla testa dei personaggi: assume anche sembianze fisiche, oggettivandosi nel ferro di cavallo che impedisce la fuga e causa la morte del killer assunto per distrarre l’attenzione durante la rapina, sparando a un cavallo sul circuito. Questo si conferma, quindi, in grado di distruggere le macchinazioni dei protagonisti da un momento all’altro: per tutto il film questa eventualità si manifesta e viene sventata ciclicamente, fino a che, nel finale, la tragedia si consuma, decretando la sconfitta di tutti i coinvolti. Dopo che i due milioni rubati vengono rovesciati a causa di una sfortunata deviazione del carrello dei bagagli e si perdono nel vento dell’aeroporto, sospinti via dalle eliche dell’aereo, Johnny, unico sopravvissuto della banda originale, non può far altro che rassegnarsi al suo destino. “What’s the difference?”, dice a mezza voce mentre, subito fuori dall’aeroporto – ancora al braccio di Fay, che tenta di farlo fuggire – si lascia arrestare da due agenti di polizia. Un intero sistema ha congiurato contro di lui, decretando la sua sconfitta e il fallimento del più preciso dei piani.

l’eredità del film

Rapina a mano armata mantiene ancora oggi il suo status di cult e negli anni ha rappresentato una grande influenza per i registi di Hollywood. La prova dell’autorevolezza della sua eredità risiede nel grande numero di heist movies prodotti ancora oggi che presentano una chiara ascendenza kubrickiana, rendendo retrospettivamente il film – uscito nelle sale al tramonto del cinema classico – un punto di svolta del genere. Da Tarantino a Edgar Wright, da Michael Mann ai fratelli Coen tutti hanno tenuto presente almeno alcuni degli elementi di Rapina a mano armata. Il caso più eclatante – perché si tratta di un richiamo evidente, quasi volto, con vera sensibilità postmoderna, a rendere il film di Kubrick un simulacro – è Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan. Nella scena iniziale della rapina viene compiuta un’operazione interessante che si carica di suggestioni non solo cinefile. Si parte da Kubrick (la maschera dei cinque rapinatori), si passa da Penn e Peckinpah (il montaggio veloce e la violenza tipica della Nuova Hollywood), si attraversa Heat e si giunge fino al moderno blockbuster supereroistico.


1 come testimonia la lunga intervista di Jeremy Bernstein al regista, pubblicata dal New Yorker nel 1966, e contenuta in Stanley Kubrick. Non ho risposte semplici, Roma, Minimum fax, 2015, p. 47.

2 suggerita da M. Bruno, Il cinema di Stanley Kubrick, Roma, Gremese, 2017, p. 83.

 

 

Leave a Reply