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di giulia

Hunt di Lee Jung-jae

★★★

I titoli di testa di Hunt, presentato in anteprima al Festival di Cannes nella sezione “Midnight Screenings“, ci spiegano che all’inizio del film — debutto alla regia della star di “Squid GameLee Jung-jae, che ha anche co-scritto la sceneggiatura e interpreta il ruolo del protagonista — ci troviamo all’inizio degli anni ’80, quando la Corea del Nord e la Corea del Sud sono bloccate in una terribile guerra fredda. La dittatura militare ha raggiunto il suo apice, il capo dell’unità estera della KCIA, Park Pyong-ho (Lee Jung-jae), e il capo dell’unità interna, Kim Jung-do (Jung Woo-sung), sono incaricati di svelare l’identità di una spia nordcoreana, nota come Donglim, profondamente inserita nella loro agenzia. Quando la spia inizia a far trapelare informazioni top secret che potrebbero mettere a rischio la sicurezza nazionale, le due unità vengono incaricate di indagare l’una sull’altra. In questa situazione di tensione, in cui se non riescono a trovare la talpa potrebbero essere accusati loro stessi, Pyong-ho e Jung-do iniziano lentamente a scoprire la verità e diventano consapevoli di un impensabile complotto per assassinare il presidente sudcoreano.

Per quanto queste siano le premesse del film, Lee romanticizza e usa la storia coreana come partenza per il suo film che di fatto è di finzione, mettendoci dentro agenti doppiogiochisti, segreti sepolti e un sacco violenza seguita da effetti speciali quasi hollywoodiani. I titoli di testa possono quindi inviare messaggi contrastanti, Hunt è un thriller spionistico denso e sanguinoso, con abbastanza colpi di scena, svolte, disertori e segreti da confondere anche gli spettatori che conoscono nel dettaglio la storia coreana. Per quelli di noi che si sono sforzati di capire al volo chi è dalla parte di chi, questo film diventa impenetrabile, non andando oltre alle rumorosissime scene d’azione.

Lee Jung-jae e Jung Woo-sung in ‘Hunt’ (Credits: Festival de Cannes)

Decision to leave di Park Chan-wook

★★★★

Questo film giallo ricco di mistero diretto da Park Chan-wook, annoverato tra i cineasti più importanti e influenti del cinema coreano, ha fatto vincere a Park il premo alla miglior regia dell’edizione di quest’anno del Festival. La trama si incentra su Hae-joon (Park Hae-il) un detective della polizia di prim’ordine, che combina magnificamente gli archetipi classici del noir, ovvero l’innamorato patetico e l’ostinato investigatore. Il più giovane agente mai diventato ispettore nella vivace Busan, è bello, rispettato e felicemente sposato con una moglie spiritosa (Lee Jung-hyun) che accetta senza problemi il suo lavoro. Tuttavia, i due non vivono insieme, poiché lei lavora nella piccola città balneare di Ipo, a poche ore di macchina, e lui, essendo nella squadra omicidi, ha bisogno del vitalità della grande città per prosperare e sopratutto, per sentirsi vivo. Quando il corpo di un uomo viene ritrovato alla base di una montagna vicina, Hae-joon viene incaricato del caso. È così che incontra la bella ed enigmatica moglie del defunto, Seo-rae (Tang Wei), un’assistente sociale di lingua cinese, la cui apparente mancanza di preoccupazione per la recente perdita del marito suscita tutta la curiosità di Hae-joon. 

La superba macchina da presa di Kim Ji-yong sembra attentamente entrare nell’intimità dei due senza, in nessun modo, diventare invadente: i primi piani sono molto vicini, ma l’alone di mistero che gira intorno alla figura di Seo-rae ci tiene comunque costantemente distanti. Il film ha sì aspetti di un classico noir, però Decision to leave è allo stesso tempo straordinariamente moderno. La tecnologia degli smartphone diventa rapidamente parte integrante della storia, e non solo a livello funzionale e di trasmissione di informazioni. Il ruolo che le registrazioni audio e video giocano nel nodo emotivo della sceneggiatura di Park e Cheung Seokyung, è fondamentale. C’è qui l’intento del regista di suggerire, nascondendo tutto ciò tra le righe della trama, come la vita tecnologica moderna ha cambiato fondamentalmente il modo in cui ci connettiamo, il modo in cui ricordiamo, il modo in cui viviamo sia l’amore che la perdita.

Park Hae-il e Tang Wei in ‘Decision to leave’ (Credits: Festival de Cannes)

Return to Seoul di Davy Chou

★★★

Ripercorrendo un periodo di otto anni della vita di Frédérique Benoît (Park ji-min) questo film — presentato al Festival nella sezione “un certain regard”, scritto e diretto da Davy Chou — è una sorta di percorso itinerante di un’anima, plasmata dal senso di incompiutezza e dal desiderio di raggiungere il proprio scopo, ovvero quello di tornare a Seoul e riavvicinarsi, non senza incertezze, ai suoi genitori biologici. Frédérique, detta Freddie, è un personaggio che tiene tutti a distanza, compreso il pubblico. È spesso irragionevole, accondiscendente e anche apertamente crudele. Ci sono segni di un sincero desiderio di miglioramento in lei, ma ogni passo avanti che compie verso la famiglia, e soprattutto verso il padre, sembra essere seguito da diversi passi indietro. La mancanza di cuore di Freddie può essere sorprendente ed esasperante, per quanto sia al tempo stesso comprensibile che una persona così lontana dal riuscire ad esprimere i suoi sentimenti, scelga di essere così dura. 

Nata e cresciuta in Francia, quando Freddie arriva a Seoul fa amicizia con la prima persona che incontra: Tena (Guka Han), che lavora nel piccolo ostello in cui lei alloggia. Sarà Tena, per prima, a incoraggiare dolcemente l’amica a visitare l’agenzia di adozione, la quale si mostra molto titubante ma poi accetta, perché in fondo, anche se fatica ad ammetterlo pure a se stessa, quello è di fatto il vero motivo del suo viaggio. Il percorso di Freddie è complicato e la struttura dell’intero film lo riflette. Dopo questo primo atto molto forte la narrazione fa un passo avanti nel tempo, riprendendo la sua vita anni dopo, per poi arrivare rapidamente ad un secondo salto avanti, dove si continuerà ancora una volta la storia di Freddie, piuttosto che concluderla. Questo non è un film di finali chiusi e armoniosi, ma un film che dedica tutto se stesso all’esplorazione di un personaggio che cerca di fare i conti (e addirittura lotta) con il proprio passato.

Park ji-min in ‘Return to Seoul’ (Credits: Festival de Cannes)

Broker di Hirokazu Kore-eda

★★★★

Questa volta ci troviamo davanti a un regista giapponese, Hirokazu Kore-eda, ma la produzione di Broker è nuovamente coreana, nonché l’intero cast. Kore-eda quindi si presenta quest’anno a Cannes, a quattro anni di distanza dalla sua Palma d’oro (vinta con Shophlifter), con un altro dramma familiare anticonvenzionale e dolorosamente empatico, perfettamente in linea con col suo stile. A questo giro il regista ci ha regalato un road-movie ispirato al fenomeno coreano delle “baby box” messe a disposizione dalle chiese per i neonati indesiderati. Il film però, oltre ad essere un dramma, riesce spesso nell’essere divertente e ironico, con la presenza anche di intrighi da crime-drama, che ci suggeriscono come, fino alla fine, non dobbiamo ciecamente fidarci di nessuna parola detta dai protagonisti. 

L’attore coreano Song Kang-ho (famoso per aver recitato in Parasite di Bong Joon-ho) interpreta Sang-hyeon, un volontario di una chiesa locale che ha appunto al suo esterno una “baby box“. Allo stesso tempo però, nell’ombra, è impegnato in truffe da “broker“: di tanto in tanto ruba un neonato — cancellando i filmati delle telecamere a circuito chiuso della chiesa che provano che un bambino è stato lasciato lì — e lo mette in vendita sul mercato nero delle adozioni. Le potenziali coppie interessate sono messe in fila dal suo socio Dong-soo (Gang Dong-won), un ex abitante di un orfanotrofio che ha accesso alle informazioni sui clienti che preferirebbero neonati, piuttosto che bambini più grandi adottati attraverso le istituzioni. Le loro vite si complicano quando la giovane madre So-young (Lee Ji-eun), il cui bambino indesiderato viene preso e messo in vendita dai due, li affronta e, invece si consegnarli alla polizia, insiste per partite con loro in bizzarro viaggio in auto per incontrare i potenziali genitori. Nel frattempo, però, sulle loro tracce ci sono una coppia attenta di poliziotte, interpretate da Bae Doona e Lee Joo-young

Naturalmente, nel mondo reale, le persone che gestiscono una truffa così nauseante sarebbero individui inquietanti e ripugnanti, invece il film presenta Sang-hyeon e Dong-soo come personaggi amabili, imperfetti ma romantici nel cuore. È uno scenario improbabile in tutto sin dal suo principio, ma il calore e l’arguzia di Kore-eda rendono facile lasciar correre. Broker vuole portarvi in viaggio con una famiglia di disadattati che sta nascendo, una famiglia che si è ritrovata insieme per mano del destino. Il quartetto, con l’aggiunta di un giovane ragazzino che scappa dall’orfanotrofio per seguirli, viaggiano su un furgone malconcio, pieno di biancheria da lavare, passando da un cliente inadatto all’altro. Il fascino del film è semplice e lo sono anche le dinamiche in gioco: legami toccanti che si formano lentamente, lezioni di vita che vengono apprese tra le risate. Alla fine, Kore-eda non chiede allo spettatore di dimenticare le trasgressioni e di fornire a tutti un perdono immediato. C’è però un’apertura a nuove possibilità, si suggerisce che crescere i figli è un’impresa che beneficia di un intero spettro di influenze, rivelando una generosità di spirito e una commovente fiducia nella natura umana.

Lee Ji-eun, Gang Dong-won e Song Kang-ho in ‘Broker’ (Credits: Festival de Cannes)
Giulia

Nouvelle Vague, arti visive e ramen istantaneo. Non mi piace parlare di me, ma mi piace parlare di film.

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